Esiste un “Nuovo Est”?

Era il 26 dicembre 1991 quando Mikhail Gorbachev, annunciando le sue dimissioni da leader dell’Unione Sovietica, affermava “Adesso viviamo in un mondo nuovo”. L’epoca storica che ne è seguita ha visto uno slittamento delle forze e delle forme di potere, dei rapporti di dominio e di subordinazione che, da un lato, ha innescato la creazione di nuovi confini e identità nazionali e, dall’altro, ha trasformato l’impero monolitico in una regione frammentata, rafforzando quel che il Premio Pulitzer Charles Krauthammer aveva già definito il “momento unipolare”. Alla caduta del muro, Krauthammer aveva descritto lo squilibrio derivante dalla caduta dell’URSS dicendo: “Il mondo dell’immediato dopoguerra non è multipolare. È unipolare. Il centro del potere mondiale è la superpotenza incontrastata degli Stati Uniti, supportata dai suoi alleati occidentali”. Nel corso dei decenni successivi al 1991, neoliberismo e globalizzazione hanno contaminato in modo sempre più persistente molti Paesi dell’ex blocco socialista, sia in Europa orientale che in Asia occidentale, spingendo la leadership russa a perseguire (e ottenere) l’ingresso a organizzazioni storicamente intrinseche del potere occidentale, come la World Trade Organization. Chi studia il fenomeno della globalizzazione in questa parte di mondo, come Evgeny Dobrenko, co-Direttore del Centro Prokhorov per lo studio della storia intellettuale e culturale dell’Europa centrale e orientale di Sheffield, nota come questi tentativi di essere ammessi nella “casa europea” simulando democrazia, economia di mercato e postmodernismo risultino artificiali e se è vero che gli sforzi di riprodurre modelli occidentali siano poco credibili, rimane il desiderio di definire la cultura emersa in seguito al crollo dell’URSS. Il termine “post-sovietico” è diventato un’etichetta inglobante (e ingombrante) utilizzata per indicare una produzione culturale che, sebbene sia specifica da un punto di vista temporale, è rimasta piuttosto vaga nella sua essenza. Ha ancora senso, quindi, parlare di uno spazio culturale post-sovietico?

Verso un’estetica post-post-sovietica

A tre decenni dalla caduta dell’URSS sembra legittimo chiedersi se l’aggettivo “post-sovietico” debba essere ancora utilizzato per riferirsi alla cultura dell’Europa orientale, della Russia e dell’Asia centrale. Con la prima generazione di cittadini nati dopo la rottura dell’Unione che sta maturando in un’era in cui politiche neoliberali, sentimenti nazionalisti e processi di decomunificazione si intrecciano e sovrappongono, accademici, sociologi e giornalisti hanno evidenziato la necessità di trovare una nuova terminologia che sostituisca il termine politicizzato “post-sovietico”, senza però riuscire a trovare consenso sulla denominazione più giusta da utilizzare. Definire il periodo successivo al 1991 come un’era culturale è stato complicato per una serie di ragioni molto diverse tra loro. A livello locale, mentre le circostanze politiche sono cambiate bruscamente, le scienze sociali hanno faticato a dare una nuova interpretazione di ciò che stava emergendo; come spiegano Howard Davis e Sergey Erofeev, “fino alla fine del periodo della perestroika, le scienze sociali nella Russia sovietica erano essenzialmente al servizio del potere centralizzato e dell’ideologia dello Stato” e “il concetto di cultura (che era diventato la chiave per lo sviluppo della teoria sociale in Occidente con la “svolta culturale“) si è rivelato difficile da tradurre e da applicare alla Russia”. Julie Buckler sostiene che “gli studiosi che esplorano la dilagante nostalgia post-sovietica in Russia sono essi stessi portatori di un complicato mix di sentimenti verso il passato sovietico”, confermando, in un certo senso, l’affermazione di Dobrenko secondo cui “la cultura russa contemporanea non può essere altro che il superamento della cultura stalinista”, un’interpretazione che suggerisce che il processo di uscita dal quadro culturale fornito da decenni di realismo socialista potrebbe essere stato troppo complesso e sfaccettato per formare un’estetica identificabile, nuova e unificata. La percezione della cultura “post-sovietica” in Occidente, d’altro canto, è rimasta a lungo legata al passato totalitario, e trascurata come prodotto della politica piuttosto che come una vera e propria corrente estetica. Una visione di questo tipo è stata rafforzata da narrazioni distopiche del ventesimo secolo come Arancia Meccanica di Kubrik, con il suo sfondo di un’architettura brutalista e il russo rappresentato come futura lingua franca, o Il Congresso di Futurologia di Stanislaw Lem che nega un futuro post-industriale in cui, a prescindere da chi possiede i mezzi di produzione, l’umanità può fiorire. Il risultato di questo genere di narrazioni, combinato alla propaganda della Guerra Fredda, è stato il disinteresse per le produzioni culturali che hanno avuto origine dall’utopia fallita, almeno fino a poco tempo fa.

Nel 2017, Peter Doodley, redattore della rivista Post Pravda, scrive: “fino a un paio d’anni fa, scrivere della regione post-sovietica era antiquato. Nel nominare dieci libri russi ‘da leggere’ nel 2005, il giornalista del Guardian James Meek, corrispondente dal 1991 fino al 1999, è riuscito a includere solo due libri del periodo contemporaneo. Entrambi riguardavano in gran parte la rivoluzione del 1917″. A 25 anni dal crollo dell’Unione Sovietica, tuttavia, l’attenzione verso la cultura contemporanea dell’Est da parte dei media occidentali ha cominciato a crescere in modo rapido. Il perido post-sovietico sembra aver avuto un impatto sul paesaggio culturale di Europa orientale e Asia occidentale, spingendo gli studiosi a chiedersi se la congiuntura post-sovietica sia giunta a una conclusione e innescando la formazione di nuove definizioni. Su Open Democracy Kirill Kobrin sostiene che “l’ideologia sovietica non si è tanto trasformata quanto è andata gradualmente scomparendo” e che l’Europa dell’Est sta entrando in un’era post-sovietica in cui “il neoliberalismo, il globalismo e altri potenti costrutti teorici”, precedentemente influenti, stanno cominciando a perdere la loro forza. Un passaggio da post a post-post coincide con l’ingresso nel mondo degli adulti della prima generazione di cittadini nati dopo la caduta dell’URSS, ma anche con una crescente interazione tra sottoculture internazionali grazie a internet e all’apertura di molti confini nazionali. Il desiderio di rinnovamento ha trovato espressione in anni recenti, nel luogo più improbabile: a Londra. È qui che nasce il termine “Nuovo Est”. Organizzazioni come il Calvert Journal, il Guardian (con il loro New East Network), il New East Cinema e il New East Photo Prize hanno provato a tracciare un’estetica che unisce i paesi ex socialisti attraverso diversi mezzi. Presentando il lavoro di fotografi, musicisti, registi e stilisti emergenti a un pubblico di lingua inglese e rivalutando i paesaggi “distopici” delle città dell’ex blocco sovietico, queste entità culturali si sono attivate per superare l’etichetta “post-sovietica”.

Nel suo articolo “What Comes after ‘Post-Soviet’ in Russian Studies“, Julie Buckler sostiene che il “modello angloamericano degli studi culturali, con il suo approccio marxista revisionista, esplicito o implicito, è stato a lungo non congeniale agli specialisti russi, che, al contrario, hanno cercato di ‘depoliticizzare’ lo studio dei testi letterari”. La nuova attenzione verso i punti ciechi della cultura, però, ha portato gli studiosi odierni a spostare l’attenzione dalle nozioni familiari di resistenza e eroismo all’esperienza quotidiana, alla vita interiore e alle pratiche ordinarie. È forse in questo contesto che emerge la concettualizzazione di un “Nuovo Est”. La stessa Buckler sostiene la necessità di una terminologia soddisfacente e ammette che, nonostante l’ormai popolare denominazione “Eurasia” offra un’alternativa alla visione delle storie della regione secondo il modello stato-nazione, spostare il nostro sguardo dalle strutture politiche ai fenomeni culturali potrebbe fornire una base di analisi più flessibile. Nel tentativo di abbandonare la dicotomia di Oriente contro Occidente e di offrire una piattaforma depoliticizzata dedicata alle arti e alla cultura dell’Est, l’economista Nonna Materkova ha fondato nel 2013 il Calvert Journal, un prodotto dell’organizzazione no-profit Calvert 22 Foundation. Autodefinitosi la “pubblicazione leader nei campi di cultura, innovazione, fotografia e viaggi nel Nuovo Est”, il Calvert propone articoli quotidiani su design, architettura, moda, musica e turismo a un pubblico di lingua inglese dalla sua sede di Somerset House. I contenuti del Calvert includono classici reportage di viaggio da angoli remoti dell’Asia centrale e della Siberia, guide sui ristoranti di quartieri alla moda di Tbilisi, Riga o Kiev, e progetti fotografici che celebrano gli iconici palazzi residenziali che formano i paesaggi di cemento di molte città sovietiche. Nel corso della sua breve vita, il Calvert ha già vinto una lunga serie di premi, ha collaborato con il Guardian lanciando una piattaforma dedicata alle notizie dell’Est e ha istituito il New East Photo Prize, oggi alla terza edizione. Sulla scia del Calvert, altre organizzazioni di lingua inglese sono apparse nel panorama culturale anglofono, contribuendo a costruire una nuova percezione dell’estetica dell’Est. Da Fuel Publishing, la casa editrice responsabile di libri fotografici andati virali come Soviet Bus Stops e, più recentemente, Soviet Cities (che ha raccolto 28.000 sterline in crowdfunding su Kickstarter), al New East Cinema ospitato dal Barbican Center di Londra, a entità indipendenti come Kajet Journal of Eastern European Encounters o Zupagrafika.

Nuove strategie di soft power

Nonostante gli sforzi per smontare i pregiudizi e rinfrescare l’immagine di una produzione culturale trascurata, amplificando le voci di artisti e creativi cresciuti durante il periodo di transizione, le critiche al Calvert Journal sono apparse fin dalla sua prima fase. Se la distanza dai temi politici può essere interpretata come un modo per non oscurare il valore artistico che il Calvert cerca di evidenziare, lo scrittore Giuliano Vivaldi ha messo in luce i legami tra l’élite finanziaria russa e la classe creativa sostenendo che “l’ethos prevalente, fresco e alla moda” non giustifica il “servizio severamente limitato nel riportare i veri dibattiti e i fenomeni che muovono la cultura russa al suo centro”. Non è, però, solo la mancanza di argomenti sensibili all’interno del Calvert ad essere problematica. Il rischio di passare da uno stereotipo all’altro è presente in quanto l’etichetta “Nuovo Est” si sta evolvendo nella direzione di un marchio utilizzabile come strumento di marketing nell’Occidente neoliberale. L’ethos “cool, hipster-like” discusso da Vivaldi sembra essere un riconfezionamento del concetto post-sovietico progettato per attrarre lo sguardo occidentale. E se tale azione può avere risultati positivi – alimentando la curiosità verso luoghi poco conosciuti e portando a una rivalutazione culturale della regione eurasiatica da parte del pubblico britannico e dell’Europa occidentale in generale – nascondere quanto costruito a tavolino sia quel “nuovo” potrebbe essere controproducente. Come spiega Wally Olins, esperto di branding britannico, dare un nuovo nome all’intera regione semplicemente perché un tempo era unita sotto la stessa bandiera potrebbe limitare una visione realistica delle identità nazionali e individuali:

Quante persone – a parte i veri specialisti – riescono a distinguere i cinque “stan” dell’ex Asia centrale sovietica? In realtà, Uzbekistan, Kirghizistan, Turkmenistan, Kazakistan e Tagikistan sono stati molto diversi. Alcuni grandi, alcuni piccoli, alcuni con risorse enormi e altri no, alcuni sono dittature comuniste vecchio stile, altri si stanno evolvendo in una direzione più o meno democratica e, naturalmente, tutti si detestano a vicenda. Ma hanno un problema reale nello stabilire chi e cosa sono in un mondo sempre più ingombro di “nuove” nazioni.

In questo senso, anche se la maggior parte dei progetti che si occupano del “Nuovo Est” sono di natura transnazionale e interdisciplinare, di fatto funzionano come uno specchio che riflette uno sguardo occidentale preesistente. Con titoli come “Discover the satisfying simplicity of Poland’s housing blocks,” “Bring socialist modernism home with these miniature, build-your-own tower blocks,” o “Beauty and the east: is it time to kick our addiction to ruin porn?”, il Calvert ripropone i paesaggi urbani dell’Europa dell’Est, un tempo cupi e desolati, come destinazioni esotiche, intrise di nostalgia, da visitare, fotografare e condividere sui social media. L’immagine precedente delle megalopoli sovietiche come città grigie e distopiche simbolo dell’ideale, fallito, del funzionalismo puro, è sostituita da visioni instagrammabili di condomini ucraini baciati dal sole che aspettano solo di essere gentrificati. Titoli del genere non appartengono solo all’architettura: descrizioni simili sono date al lavoro di artisti e creativi emergenti, provenienti da circa trenta paesi diversi che coprono un sesto della superficie del globo. Non è chiaro, insomma, come si possa trovare un’estetica unificata che possa essere posta sotto l’ombrello del Nuovo Est, come suggerisce il Calvert.

Come spiega Dooley, “è difficile dire se esista una nozione esatta di ciò che definisce la fotografia, la musica o i film del Nuovo Est”, ma affermare l’esistenza di un’estetica comune non fa altro che alimentare l’idea di quello stile “post-sovietico” emergente descritto da pubblicazioni come Vice, High Snobiety e BBC. La mercificazione di quello che era tradizionalmente l’abbigliamento della classe operaia si è tradotta in una tendenza che non solo si appropria, ma mantiene la dicotomia tra Occidente egemonico e Oriente periferico che entra nella scena della moda solo perché gli è permesso di farlo. Un esempio lampante: subito dopo essere apparso sui social media e nelle pubblicazioni occidentali come elemento dell’avanguardia post-sovietica H&M, Topshop, Urban Outfitters e altri marchi di fast fashion non hanno esitato a mettere lettere cirilliche su maglioni e magliette. Anche l’ampia copertura di gruppi di attivisti come Pussy Riot perde la sua forza in un simile contesto, facendo sì che le loro azioni diventino un prodotto della cultura popolare. Come mostra Katharina Wiedlack “da quando i media occidentali hanno mostrato per la prima volta interesse per le Pussy Riot nel marzo 2012, il gruppo di attiviste, il loro femminismo e il loro simbolo – i passamontagna – sono diventati significanti vuoti e merci da vendere” evidenziando quel che è poi “l’unico riferimento visibile allo sguardo occidentale”.

Nazioni e città utilizzano da tempo il “place branding” per attrarre turismo, investitori e posti di lavoro, ma la promozione dell’ex blocco sovietico condotta dalla Calvert 22 Foundation appare come un tentativo più sottile di cambiare la percezione del pubblico occidentale. VBT Capital, una delle principali banche d’investimento in Russia, partner primario della Calvert 22 Fundation, ha dichiarato esplicitamente che esiste uno scopo politico nella creazione di un Nuovo Est dichiarando: “La nostra società gioca un ruolo importante nel rafforzamento dei legami tra la comunità imprenditoriale russa e quella britannica e la partnership con Calvert 22 è una parte fondamentale dell’approccio di soft power di VTB Capital per cambiare la percezione della Russia”. Vista in questa luce, la genuinità dietro le pubblicazioni finanziate dal VTB può essere messa in discussione, e anche se il servizio fornito agli artisti emergenti può essere utile, la natura accuratamente costruita dell’estetica del Nuovo Est offre solo una visione offuscata di ciò che rappresenta lo spazio post-post-sovietico oggi. Gli sforzi per indirizzare l’attenzione verso la produzione artistica dei paesi dell’ex blocco, sostenendo che esiste un’estetica unificante, non solo rinvigoriscono l’idea in cui un gruppo di repubbliche intercambiabili forma un Est emergente che si oppone a un Occidente accondiscendente e culturalmente avanzato, ma suggeriscono anche la presenza di una strategia di soft power che cerca di distrarre dalle questioni sociali, politiche ed economiche che affliggono la regione.Nel 2017 falce e martello sono apparsi nella collezione Gucci Autunno e, poco prima, Kim Kardashian ha pubblicato un post di Instagram in cui era ritratta, alla vigilia di Natale, in una felpa oversize adornata con il simbolo sovietico. Fotografie di edifici di cemento e ragazzi in completo Adidas sono passati dall’essere meme a far parte delle moodboard di agenzie di marketing. Appare ovvia la costruzione e la successiva mercificazione di un’estetica dell’est progettata per attrarre un pubblico occidentale pronto a trasformare il significato dei simboli politici in oggetti di consumo. Un cambiamento di moda potrebbe non essere problematico se si tiene conto del fatto che i creativi prima trascurati hanno ora la possibilità di mostrare e vendere il loro lavoro a un pubblico più ampio, tuttavia, sapendo che le organizzazioni che guidano tale rimodellamento della percezione sono guidate da un’agenda politica, è fondamentale chiedersi se tale entusiasmo per il Nuovo Est stia volutamente distorcendo la visione della realtà, oscurando elementi della cultura orientale che non possono essere messi sul mercato.

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