Gli Yama e i Niyama: dal medioevo a oggi

Parte I – di Jason Birch e Jaqueline Hargreaves, The Luminescent

Traduzione e commento di Francesca d’Errico

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Tra i primi concetti che ci vengono trasmessi quando iniziamo a praticare Yoga, troviamo gli Yama e Niyama, i cosiddetti “codici di comportamento” dello Yogi nei confronti di se stesso e degli altri. Ma cosa è cambiato nell’interpretazione di questi precetti morali dalla loro prima apparizione ad oggi? E sono veramente presenti in tutti i testi che trattano di Yoga? Per scoprirlo, mi sono rivolta come sempre ai ricercatori della SOAS University, ideatori e realizzatori del famoso Hatha Yoga Project di cui ultimamente sto traducendo per voi una selezione di articoli. Così, sfogliando tra i tanti, interessantissimi documenti a disposizione, ho trovato questo articolo, pubblicato dallo Yoga Scotland Magazine e in seguito online su The Luminescent, in cui Jason Birch e Jacqueline Hargreaves cercano di mettere un po’ di ordine in un percorso non sempre ovvio e lineare. Ho diviso per praticità il post. La seconda parte, nei prossimi giorni, affronterà i principali Yama e Niyama in dettaglio. Ma ora dedichiamoci all’introduzione storica, che riserva come sempre molte sorprese…

Yama e Niyama – la visione medievale (immagine di The Luminescent)

In questo articolo esamineremo come gli Yama e i Niyama siano stati interpretati in testi di diverse tradizioni medievali e moderne. In alcuni casi, queste linee guida comportamentali sono state adattate in base al pubblico a cui erano dirette e, in altri casi, sono state reinterpretate a seconda delle visioni dottrinali di una determinata tradizione. Dovremo inoltre considerare per quale motivo alcuni metodi, come il Ṣaḍaṅgayoga dello Śaivism, e le prime tipologie di Haṭhayoga, abbiano omesso gli Yama e i Niyama. Infine, discuteremo della continua influenza dei Pātañjalayogaśāstra nell’India medievale ed esamineremo (nella seconda parte di prossima pubblicazione, n.d.T.) come sono stati reinterpretati i concetti di Ahiṃsā, Brahmacarya e Tapas.

La diversa numerazione di Yama e Niyama

Nel periodo medievale indiano (tra il sesto e il diciottesimo secolo), i principali sistemi di Aṣṭāṅgayoga contenevano più dei dieci Yama e Niyama dei Pātañjalayogaśāstra. Molti ne presentavano venti, e alcuni addirittura trenta. Un esempio tipico si trova nel Śāradātilaka, del dodicesimo secolo, un Tantra di Orissa, che contiene un capitolo sullo yoga alquanto eclettico:

I dieci Yama sono non violenza, sincerità, non rubare, celibato, gentilezza (kṛpā), sincerità (ārjava), pazienza (kṣamā), serenità (dhṛti), alimentazione moderata (mitā- hāra) e pulizia (śauca). I dieci Niyama, insegnati da chi conosce le scritture dello yoga, sono ascetismo, contentezza, fede [nell’esistenza di un mondo superiore] (āstikya), [donazioni religiose] (dāna), adorazione di Dio (devasya pūjana), ascolto degli insegnamenti dottrinali (siddhāntaśra- vaṇa), compunzione (hrī), contemplazione (mati), ripetizione di un mantra (japa) e presentazione di offerte (huta).

Molti, se non tutti, gli Yama e i Niyama di Patañjali furono mantenuti nelle tradizioni successive. Tuttavia, in alcuni casi, fu abbandonata la visione di Yama e Niyama come rami di sostegno. Troviamo un buon esempio in un testo Advaitavedānta precedente al 14esimo secolo, l’Aparokṣānubhūti, che trasmette un sistema di Rājayoga con quindici rami (aṅga). In questo testo, gli Yama e i Niyama sono definiti così:

Con la consapevolezza che ‘Tutto è Brahma’, si ha la moderazione di tutti i sensi. Questo è chiamato Yama e dovrebbe essere praticato costantemente. Niyama è un corso di azione susseguente, coerente con questa consapevolezza e con il rifiuto delle azioni che ad essa non si confanno. Il saggio genera supreme benedizioni grazie al Niyama.

Altri testi riconoscono implicitamente l’esistenza di altri Yama e Niyama, ma insegnano selettivamente solo quelli che considerano più importanti. Lo si vede ad esempio nell’Aṣṭāṅgayoga del Netratantra Aṣṭāṅgayoga (750-850 CE), che li considera come uno dei tre metodi per eludere la morte (kāla- vañcana):

Lo Yama migliore è l’astensione costante (virati) dalla vita mondana (saṃsāra), ed il miglior Niyama è la meditazione costante (bhāvanā) sul più elevato livello di realtà (tattva).

Il Netratantra fa parte di una minoranza dei Tantra di Śaiva che adottavano la formula a otto rami dell’Aṣṭāṅgayoga nel loro sistema Yogico. Nello Shivaismo tantrico era prevalente la formula a sei rami (ṣaḍaṅga) che ometteva Yama e Niyama. Sebbene sia molto difficile parlare di Tantra in termini generici a causa delle grandi diversità delle sue tradizioni e dei corrispondenti insegnamenti, sarebbe un errore concludere che l’omissione degli Yama e dei Niyama nel Ṣaḍaṅgayoga voglia indicare l’abbandono di una condotta morale. Al contrario, molti Tantra contengono passaggi relativi alla condotta morale degli iniziati, e se consideriamo questo aspetto accompagnandolo alla lettura del Ṣaḍaṅgayoga, gli Yama e i Niyama diventano in questo contesto quasi superflui.

L’omissione di Yama e Niyama
Nath yogi

Molte tradizioni primitive di Haṭha e Rājayoga (12esimo-15esimo secolo) omettevano gli Yama e i Niyama dai loro insegnamenti. Un esempio lampante è nell’Haṭhapradīpikā, del 15esimo secolo, il cui manoscritto non contiene versi relativi alle linee guida comportamentali. La loro omissione impone una domanda: quali erano i codici morali dei primi praticanti di Haṭha e Rājayoga? Una risposta possibile è che questi praticanti seguissero i codici morali della loro tradizione religiosa. Alcuni testi indicano che l’Haṭha e il Rājayoga erano conosciuti da una pletora di praticanti. Ad esempio, nella sezione dedicata all’Haṭhayoga, Dattātreyayogaśāstra del 12esimo secolo cita:

Che sia un Brahmmino, un asceta, un Buddista, un Jainista, un portatore di teschi (kāpālika) o un materialista; il saggio che ha fiducia [negli insegnamenti dell’Haṭha e del Rājayoga] ed è devoto alla pratica dello yoga, otterrà il successo in qualsiasi impresa.

In una simile situazione, sembra plausibile pensare che i Brahmini seguissero il codice di condotta Brahminico, i Buddisti il loro, e così via. Si potrebbe pensare che i portatori di teschi, i Kāpālika, che di notte sul suolo delle cremazioni adoravano una terrificante versione di Śiva chiamato Rudra, avessero poco a che fare con linee guida comportamentali di qualsiasi tipo. Godevano di una dubbia reputazione, con i loro riti trasgressivi che comprendevano anche il consumo di carne umana. Alcune delle loro scritture sono sopravvissute, ma un commento agli Pāśupātasūtra di Kauṇḍinya (quinto-sesto secolo CE) contiene una discussione piuttosto vasta sugli Yama e i Niyama di questi asceti. Kauṇḍinya li elenca:

Non violenza, celibato, sincerità, astensione dal commercio e non rubare sono gli Yama. Non cedere alla rabbia, ascoltare il guru, essere lindi, cibarsi con moderazione ed essere vigili sono i Niyama.

In termini generali, questi spaventosi asceti di Śaiva seguivano strette interpretazioni dei loro Yama e Niyama. Ad esempio, il commento rivela che dovevano mangiare solo cibo preparato da altri, per non incorrere nel peccato di Hiṃsā (violenza) inerente alla preparazione del cibo, come accendere un fuoco (azione che poteva causare la morte di creature minuscole).

Poiché i testi di Rāja e Haṭhayoga non menzionano la necessità, per i praticanti, di sottostare a riti di iniziazione (dīkṣā), probabilmente queste tipologie di yoga erano praticate da persone che continuavano a seguire le regole comportamentali della tradizione di appartenenza. In questo senso, l’Haṭha e il Rājayoga possono essere considerati moralmente neutri, perché si basano sui codici morali di altre tradizioni.

In quasi tutte le versioni stampate dell’Haṭhapradīpikā sono inseriti versi sugli Yama e i Niyama, spesso presi a prestito dai commenti di Brahmānanda, intitolati Jyotsnā, e scritti nel 19esimo secolo. La struttura originale del manoscritto dello yoga dell’Haṭhapradīpikā è solo a quattro rami (ovvero Āsana, Prāṇāyāma, Mudrā e Samādhi). L’inclusione degli Yama e dei Niyama nelle sue edizioni stampate è forse un tentativo degli editori di rendere più comprensibile questo testo. Questi editori erano probabilmente influenzati dal sistema dell’Aṣṭāṅgayoga, probabilmente a causa della popolarità degli Yogasūtra di Patañjali in seguito all’enorme successo internazionale del libro Raja Yoga di Swami Vivekananda (pubblicato nel 1896).

La continua influenza dei Pātañjalayogaśāstra
Patanjali,
effige medievale

Sebbene i Pātañjalayogaśāstra avessero poca influenza sui metodi primitivi di Haṭha e Rājayoga, restavano comunque un’importante opera sullo yoga per Brahmini eruditi e filosofi dell’India medievale, come è largamente dimostrato dagli autori medievali che composero i loro commenti a quest’opera: da Śaṅkara, Vācaspatimiśra, a Vijñānabhikṣu, ma anche ai meno conosciuti Bhāvagaṇeśa, Bhavadevamiśra, Nārāyaṇatīrtha e così via.

Tutti questi autori erano filosofi colti, e nelle loro spesso scarne biografie si nota la loro affiliazione ad altre tradizioni filosofiche dell’epoca, come l’Advaitavedānta. In altre parole, questi commenti non erano frutto di un lignaggio filosofico che si identificava nei Sāṅkhyans o negli yogin.

Infatti, l’influenza di Patañjali nel periodo medievale si evince con più facilità nella letteratura Brahminica. E’ come se molti eruditi Brahmini avessero i Pātañjalayogaśāstra nella loro collezione di manoscritti, e li estraessero dai loro scaffali quando avevano bisogno di riferimenti in materia di yoga. Ad esempio, quando il commentatore Kashmiro Rājānaka Alaka, vissuto poco dopo il 12esimo secolo, si trova a commentare il termine amanaskayoga (letteralmente, ‘lo yoga senza mente’) in un capitolo dell’inno a Śiva Haravijaya, ci si aspetterebbe un riferimento ad un altro testa Śaiva su questo argomento, come l’Amanaska del 12esimo secolo. Ma sembra che Rājānaka Alaka avesse più familiarità con lo yoga di Patañjali che con l’Amanaska, che insegnava un sistema yogico noto come Rājayoga per il raggiungimento dello ‘stato di Yoga senza mente’ (amanaska). Egli spiega quindi amanaskayoga con i termini che Patañjali usa per definire il più alto livello di Samādhi, l’Asaṃprajñātasamādhi:

[Questo] stato di yoga (yogadaśā) è privo di mente (amanaskā), [ovvero, è una] forma di Asaṃprajñātasamādhi, [che è] priva dell’attività della mente, [la cui] natura è il pensiero discorsivo.

Fu solo dopo il sedicesimo secolo che gli accademici eruditi iniziarono a interessarsi seriamente ai testi di Haṭha e Rājayoga .

Un ulteriore esempio di Brahmino erudito, la cui visione sullo yoga fu largamente influenzata dai Pātañjalayogaśāstra, è Godāvaramiśra. Fu il precettore (rājaguru) del sedicesimo Re di Orissa, Pratāparudradeva. Il suo compendio sullo Yoga, lo Yogacintāmaṇi, si fonda principalmente su passaggi selezionati dei Pātañjalayogaśāstra, sui commenti di Vācaspatimiśra e di Bhojadeva e sui passaggi relativi allo yoga di altri testi yogici considerati accettabili dai Brahmini ortodossi, come i Purāṇa e i Dharmaśāstra.

-continua

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