Le architetture di Hong Kong in 135 Polaroid: intervista al fotografo Pascal Greco

L’artista svizzero Pascal Greco racconta grandi storie in piccolo formato. Fotografo e regista, Pascal crea narrazioni che evocano e documentano il passare del tempo incorniciando spazi inanimati. Ho parlato con lui degli inizi come autodidatta, del suo libro Hong Kong – Perspectives, Prospectives, Typologies, in cui Greco ha raccolto 135 polaroid in bianco e nero che mostrano come l’architettura di Hong Kong sia cambiata negli ultimi settant’anni, e del suo recente film con Asia Argento.

Ciao Pascal, racconta: come è iniziato tutto?

Ho iniziato a lavorare con la fotografia quasi 15 anni fa, quando ho comprato una Fuji Mini-Instax a Tokyo nel 2006. Con quella macchina fotografica istantanea, ho fatto un viaggio di due settimane intorno al Giappone. Più o meno nello stesso periodo un mio buon amico, Nicolas Ducret, si trovava a Tokyo, fotografando la città con una Hasselblad. Quando siamo tornati dai nostri viaggi ci siamo incontrati per confrontare i nostri scatti. Abbiamo notato che i nostri lavori erano diversi ma complementari e abbiamo deciso così di provare ad allestire una mostra. 

L’abbiamo fatta in un bar, la mostra è piaciuta ai media locali che ne hanno parlato positivamente. Dopo la mostra, abbiamo contattato un editore svizzero chiamato Infolio. Hanno risposto positivamente, il lavoro gli era piaciuto e avevano letto articoli sulla mostra.

Alla fine del 2007, abbiamo pubblicato il nostro primo libro intitolato Kyoshu, Nostalgie du Pays. Metà del libro presenta le foto di Nicolas in medio formato e l’altra metà presenta le mie, prodotte con la Mini-Instax. Alla fine del libro, c’è un DVD con un film di 17 minuti che ho realizzato con una pellicola Super8 e 16mm durante il mio viaggio in Giappone, con la musica di Kid Chocolat. 

Questo dimostra che si può fare un progetto fotografico, una mostra o un libro con una macchina fotografica molto economica e piccole immagini istantanee. Cosa che credo sia importante dire ad alta voce, dato che siamo in un’epoca in cui la gente pensa che se non hai una grande e costosa macchina fotografica con milioni di pixel non sarai in grado di creare qualcosa di serio o essere credibile.

Hong Kong - Pascal Greco

Molti dei tuoi progetti fotografici si concentrano sull’architettura di paesi lontani dalla tua Ginevra. Catturi gli spazi abitati dalle persone, ma senza che le persone si vedano. Da dove viene il tuo interesse per l’architettura?

Non conosco le ragioni esatte. Ho scoperto il lavoro del fotografo svizzero Joel Tettamanti, che per me è uno dei migliori fotografi di architettura in circolazione, in una rivista nel 2007. Aveva pubblicato un bellissimo progetto di immagini notturne sull’architettura di Tokyo e questo mi ha fatto venire voglia di fare fotografia di architettura.

Mi piace vedere le foto delle grandi città, che di solito sono molto trafficate, senza esseri umani. Ti danno una sensazione diversa della città, ti permettono di vedere i luoghi in cui viviamo da una prospettiva nuova.

Pascal Greco, Hong Kong

Fotografi famosi hanno catturato l’architettura di Hong Kong prima di te in modi diversi ( penso a Andreas Gursky o a Michael Wolf, ad esempio). Perché hai scelto di dedicare un libro agli edifici di questa città?

Amo molto l’architettura di Hong Kong, la densità e l’estetica, le prospettive e il design degli edifici e delle torri. Anche il fatto che il territorio è unico, con acqua, foreste, rocce, colline, terreno in movimento. E amo anche i vecchi edifici degli anni ’50 e ’60 di Kowloon, che sono davvero unici.

Volevo provare un approccio diverso da quello di Gursky e Wolf, che hanno prodotto (soprattutto Wolf) lavori notevoli su questa città con fotocamere di grande formato. Ho deciso di dedicarmi a questo progetto con una Polaroid, per rompere le regole della fotografia di architettura, abbandonando il grande formato.

Ho deciso di scattare con pellicole in bianco e nero (664 e 663) per differenziare il mio lavoro dalla maggior parte delle fotografie di Hong Kong, che di solito mostrano gli edifici con i loro colori vivaci, all’apparenza allegri. Bisogna ricordare che questi colori, però, sono stati scelti dallo Stato, per nascondere la drammatica realtà di questa città. Ho deciso di usare il bianco e nero, per mostrare la “realtà” di chi abita in queste torri.

Il libro ha un elemento documentaristico – muovendosi tra le pagine si nota come la megalopoli sia cambiata nel tempo -, ma allo stesso tempo è chiaramente un progetto artistico. Dove tracci il confine tra arte e fotografia documentaria? Queste etichette hanno un significato per te?

Per me è semplicemente un progetto fotografico. Non ha importanza per me parlarne come arte, giornalismo o reportage. Alcune persone pensano che sia un progetto documentaristico perché il mio desiderio era quello di mostrare la tipologia delle architetture di Hong Kong. Questo è anche il motivo per cui mi ci sono voluti cinque anni per completarlo, per coprire tutte le aree della città. 

Per altri è un progetto giornalistico perché ho chiesto a un rinomato professore di amministrazione e lavoro sociale (Ernest Chui) di scrivere sul legame tra architettura/urbanistica, economia e povertà a Hong Kong. Ho anche chiesto ad architetti di parlare delle specificità dell’architettura di Hong Kong. 

E, naturalmente, alcune persone pensano che questo sia un progetto artistico perché ho usato la Polaroid per fare fotografie di architettura.

Alcune questioni pratiche: hai passato cinque anni, tra il 2012 e il 2017, a lavorare a questo progetto, scattando tutto in analogico. Che attrezzatura hai usato?

Amo l’estetica e la resa delle Polaroid in bianco e nero. La 664 e la 663 sono incredibili, soprattutto per il brutalismo, il cemento, l’architettura. Ho lavorato a questo progetto per cinque anni perché era importante per me prendere il tempo di coprire e scoprire l’intero paese. Il mio desiderio era quello di mostrare tutte le tipologie di architettura che ci sono a Hong Kong. Come ho detto, volevo proporre un approccio diverso alla fotografia d’architettura, ed è per questo che ho deciso di realizzare questo progetto in Polaroid. Ho cercato di rompere le regole della fotografia d’architettura, che di solito è scattata in grande formato. Tutte le mie foto di Hong Kong sono piccole, solo 8,6 centimetri in lunghezza e 10,5 centimetri in altezza.

Chi ti ispira?

Sono ispirato da diversi tipi di fotografia: architettura, paesaggio, astratto. Fotografi come i Becher, Gerry Johansson. Amo i film di Wong Kar Wai. Il film Koyaanisqatsi di Geoffrey Reggio con una musica incredibile di Philippe Glass ha avuto una grande influenza sul mio lavoro.

Hai lavorato come fotografo e regista indipendente su progetti tutt’altro che commerciali, creando libri e film che richiedono un grande investimento di tempo per essere prodotti. Qual è il tuo rapporto con editori, galleristi o produttori? Che ruolo hanno quando inizi a lavorare su qualcosa di nuovo?

Con la fotografia, non ho mai avuto galleristi, non li ho mai contattati fino a poco tempo fa. Ho avuto la possibilità di esporre, per il momento solo in Svizzera, in qualche museo o centro fotografico, perché mi hanno contattato loro.

Quando ho un nuovo progetto fotografico, chiedo ai grafici di fare la prima bozza di un libro e mando questa bozza agli editori che mi piacciono. Ho avuto la possibilità di pubblicare 5 libri con 3 diversi editori che erano interessati ai miei progetti e alla mia fotografia.

Con i film è un po’ diverso: non ho mai contattato nessun produttore, anche perché ho fatto dei film che sono un po’ diversi da quello che si vede solitamente in giro. Ai produttori non piace rischiare, preferiscono fare film che portano soldi velocemente. I miei film sono ibridi, troppo rischiosi per i produttori. Ciò significa che autoproduco quasi tutti i miei film.

Per il mio film Stun ho avuto l’aiuto di un fondo multidisciplinare di Ginevra, perché ho lavorato con la ballerina Stefania Cazzato. Ma per gli altri miei film non ho mai ricevuto nulla dal governo. Per il mio ultimo film, Shadow, che ho co-diretto con Philippe Pellaud, abbiamo chiesto aiuto al dipartimento culturale svizzero, ma si sono rifiutati di darci dei soldi dicendo che il film è troppo concettuale, che sta tra la fiction tradizionale e l’arte.

La comunità cinematografica svizzera e gli enti che finanziano questa industria sono, purtroppo, poco aperti a un cinema diverso. Sono troppo classici. Non sostengono le nuove idee, il nuovo pensiero, le persone che propongono una visione diversa del cinema.

Quale sarebbe il tuo consiglio per un fotografo che sta iniziando con una visione fuori dalle righe?

Di essere sicuro di sé, di non ascoltare troppo le altre persone, specialmente quando si parla del proprio progetto. C’è molta gelosia nell’industria e molti fotografi preferirebbero vedere il tuo progetto fallire. Lo stesso vale per le scuole d’arte. Non sono andato a scuola di fotografia o di cinema (perché non sono stato accettato) e credo che questa sia una delle cose migliori che mi siano capitate.

Ho ascoltato troppe brutte storie di insegnanti e giurie che sono frustrati e/o gelosi e/o hanno un problema con il loro ego. Molti insegnanti sono così crudeli e cattivi con gli studenti che distruggono carriere prima ancora di farle iniziare.


Il libro Hong Kong – Perspectives, Prospectives, Typologies e gli altri lavori fotografici di Pascal Greco sono disponibili sul suo sito.

Di recente Pascal ha pubblicato un nuovo libro su Hong Kong, dedicato alle insegne al neon della città. Si può preordinare qui.

Il suo profilo Instagram si trova qui.

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